Giurisprudenza

Giurisprudenza

Tribunale di Trieste, 08.05.2007

Pres. Sansone - Est. Merluzzi - P.M. concl. conf.
Villa Frattina S.p.a. (avv.ti P.L. Roncaglia, P. Sardos Albertini) c. Azienda Agricola Frattina di Manlio e Diego Della Frattina s.s. (avv.ti prof. V. Franceschelli, D. Subani)

Allorché il marchio contiene termini generici o descrittivi che accompagnano elementi distintivi, non può essere pronunziata la nullità del marchio nella parte costituita dai termini generici o descrittivi.
L'art. 20 l. marchi non vietava di registrare quale marchio un nome geografico, salvo il caso di rifiuto da parte dell'UIBM nei casi indicati dallo stesso art. 20.
Non può essere pronunziata la nullità di un marchio geografico soggetto all'art. 20 l. marchi, allorché ai sensi dell'art. 13 CPI a seguito dell'uso che ne è stato fatto abbia acquisito carattere distintivo.
L'uso intenso e non interrotto del segno distintivo da circa trenta anni è idoneo ad attribuire capacità distintiva nel settore dei vini e delle grappe.
Ai fini del preuso del marchio può essere considerata la continuità della produzione da parte del suo attuale titolare, del suo dante causa (padre del titolare) e prima ancora di altri soggetti appartenenti alla medesima famiglia.
L'uso di fatto del marchio, pur in difetto di una specifica prova documentale, può essere provato mediante deposizioni testimoniali che in sede di complessiva valutazione possano ritenersi attendibili.
Ai fini dell'invalidazione del successivo marchio registrato è onere del titolare del marchio di fatto dimostrare che in data anteriore al deposito della domanda di registrazione esso era utilizzato con notorietà nazionale.
Costituiscono indici di uso di fatto locale la circostanza che la produzione sia stata quantitativamente contenuta e che il marchio non fosse apposto su tutta la produzione.
Il preuso locale di un marchio conferisce il diritto di continuare ad utilizzarlo, per lo stesso genere di prodotto, nell'ambito dell'uso fattone, senza tuttavia che il preutente abbia il diritto di vietare a colui che successivamente registri il marchio di farne anch'egli uso nella zona di diffusione locale, in quanto è configurabile una sorta di regime di “duopolio” atto a consentire, nell'ambito locale, la “coesistenza” del marchio preusato e di quello successivamente registrato,
Nel conflitto con il precedente marchio di fatto il marchio registrato e assistito dal favor legis.
Il preuso locale non toglie novità alla successiva registrazione, la quale è legittima anche in presenza di un uso precedente del segno importante notorietà puramente locale.
L'intensità dell'uso e la sua risalenza temporale “caricano” di forza il marchio e possono finanche attribuirgli rinomanza.
Il marchio forte gode di tutela particolarmente ampia, sicché differenze anche significative possono non bastare ad evitare la contraffazione.
.Stemma e titolo nobiliare non costituiscono idoneo elemento di differenziazione, in quanto segni “di contorno”.
Allorché il marchio è di rinomanza la sua violazione da parte di altrui segno distintivo produce pregiudizio al suo carattere distintivo nonché indebito vantaggio derivante dall'agganciamento.
La circostanza che l'uso di fatto del marchio si protragga da molti anni esorbitando dall'ambito dell'originario preuso locale esclude che sussista concorrenza sleale.

La difficile vita del marchio di fatto.
Questa nota commenta la sentenza in relazione alla parte che tratta del marchio di fatto.
Riguardo alle varie tematiche affrontate dalla decisione, oltre ai precedenti citati nella motivazione, si v., Cartella, Il marchio di fatto nel Codice della Proprietà Industriale, Milano, 2006, cui adde, Trib. Napoli, 13 ottobre 2005, Le sez. spec., 2005, n. 315, sulla irrilevanza dell'ideazione ai fini della acquisizione del diritto di preuso; Trib. Napoli, 13 dicembre 2005, Le sez. spec., 2005, n. 321, sulla rilevanza della notorietà non meramente locale del marchio di fatto; Trib. Venezia, 10 novembre 2005, Le sez. spec., 2005, n. 364 sulla cristallizzazione del marchio di fatto con notorietà puramente locale; Trib. Milano, 14 ottobre 2004, Le sez. spec., 2004, n. 266, sulla mancata prova del preuso; Trib. Roma, 31 luglio 2003, Le sez. spec., 2004, n. 110, sulla valenza neutralizzante della successiva altrui registrazione di marchio, anche in sede cautelare, del marchio di fatto con notorietà non meramente locale.
La decisione è buona testimone delle difficoltà probatorie in cui si imbatte il titolare del marchio di fatto, allorché deve dimostrare la datazione ed il carattere non puramente locale del proprio preuso, rispetto ad una successiva registrazione di marchio. Difficoltà che, come è facile intuire, aumentano via via che l'accertamento in ordine alle caratteristiche del preuso viene riportato indietro nel tempo.
Ad un primo approccio la prospettiva potrebbe presentarsi non problematica; infatti, posto che l'art. 28 CPI stabilisce in cinque anni la durata dell'uso a seguito del quale il successivo marchio registrato è convalidato, il fattore tempo sembrerebbe non particolarmente rilevante. Ma non è così, dal momento che vari fattori della fattispecie costitutiva della convalidazione possono dilatare la proiezione temporale ben oltre il quinquennio. Infatti: a) secondo la tesi cui si aderisce, i cinque anni possono decorrere dal momento di inizio dell'uso, a prescindere dalla avvenuta registrazione, oppure dal momento dell'uso, in concomitanza con l'intervenuta registrazione; b) in questo secondo caso, dati anche i ritardi dell'UIBM nel registrare i marchi, i cinque anni possono prendere a decorrere in un tempo successivo rispetto al primo caso, anche se il marchio viene usato sin dal momento del deposito della domanda; e) dopo la registrazione può non esserci alcun uso del marchio, sino al limite della maturazione del periodo decadenziale, e l'uso essere attivato un attimo prima del suo perfezionamento; d) l'uso può essere interrotto nel quinquennio, neutralizzando il processo di convalidazione in corso e poi riprendere (e quanto al computo del periodo ripartire ex novo in un momento successivo); e) la conoscenza dell'uso può intervenire anche a distanza di tempo, da che esso è iiziato.
Nel caso deciso in sentenza la domanda di nullità del marchio successivamente registrato è stata riconvenzionalmente proposta nell'ambito di una causa iniziata nel 2004, in relazione ad un marchio registrato risalente al 1978 (dal testo della sentenza non si evince se il 1978 è l'anno del deposito della domanda o quello della registrazione), ma già in uso da tempo precedente per quel che pare di poter comprendere (la sentenza riferisce di un “uso ininterrotto ed intenso, dalla fine degli anni '70 del secolo scorso”). Non risulta dalla sentenza che il titolare del marchio di fatto avesse addotto di essere venuto a conoscenza dell'uso del marchio registrato in data successiva al 1978: quindi, sotto quest'angolo visuale si trattava di accertare le caratteristiche del preuso a tale data; cioè in relazione ad una situazione di fatto datante a ventisei anni prima.
Peraltro, la sentenza da conto del fatto che “qualche anno addietro”, ma prima del 1999, il titolare del marchio registrato sulla base di tale titolo aveva diffidato l'utente di fatto del marchio. La conseguenza è che, quella diffida verosimilmente bastava a segnare il momento temporale della intervenuta conoscenza in capo al preutente dell'uso del marchio registrato; di talché, all'epoca della domanda riconvenzionale di nullità (salvo la prova della malafede del registrante: tema del quale non pare si sia discusso in causa) il quinquennio di convalidazione s'era ormai concluso.
E difatti la sentenza osserva che “appare fondata l'eccezione tempestivamente formulata dall'attrice secondo la quale, in ogni caso, tutte le registrazioni di marchio... si sarebbero convalidate... essendo ampiamente decorsi i cinque anni consecutivi di uso incontestato richiesti” dall'art. 28 CPI.
A questo punto, l'unica rilevanza che il preuso poteva avere in causa atteneva all'individuazione delle sue caratteristiche (non puramente locale/puramente locale) al fine del decidere l'ambito territoriale (del che la sentenza s'è occupata) e quantitativo (profilo invece trascurato) in cui l'uso di fatto avrebbe potuto proseguire nonostante la registrazione (convalidata) dell'altrui marchio.
Al riguardo (e qui viene, per l'appunto, in rilievo la frequente difficoltà di prova a distanza di molti anni) la sentenza nota che “il materiale istruttorie raccolto non conduce a conclusioni in termini di certezza”, che “si denota il difetto di una specifica prova documentale”, a fronte della quale si ponevano “diverse deposizioni testimoniali” (dì cui, però, .la sentenza utilizza soltanto tre).
Il procedimento accertativo seguito dalla sentenza transita attraverso questi passaggi: a) accertamento della continuità dell'attività imprenditoriale attinente ai prodotti in tesi recanti il marchio di fatto da parte, del preutente o di suoi danti causa; b) accertamento dell'uso, nell'ambito di tale attività imprenditoriale, dei marchio di fatto; c) accertamento delle caratteristiche di tale uso (non puramente locale/puramente locale).
Quanto al primo accertamento la sentenza deve constatare che “per la parte più risalente nel tempo” l'attività di impresa “si riferisce a soggetti diversi” e che solo “dai primi anni '80 in poi” (quindi, successivamente all'altrui marchio del 1978; e, forse, successivamente all'altrui uso di fatto anteriore alla registrazione) essa “si trova in costante riferimento” al titolare del marchio di fatto.
Ciò nonostante, la sentenza conclude che “si può ritenere comprovata una continuità nella produzione” del titolare del marchio di fatto e prima di lui da parte del padre e prima di lui da parte di “altri soggetti appartenenti alla medesima famiglia”.
È evidente, da questo motivare, che la sentenza si muove nel solco della presunzione. Infatti, quanto alla continuità: a) per un verso essa valorizza il dato dell'esistenza, a monte, della azienda del “padre degli attuali titolari” e nota come, ancor prima, i terzi soggetti che li avevano preceduti incorporavano nella ditta specificazioni quali “eredi”, “F.lli fu...” e similari, che spesso sono indice di “prosecuzione” dell'attività di impresa o di titolarità dell'azienda, a seguito di successione, attraverso società di fatto (l'impresa) ovvero comunione ereditaria (la titolarità dell'azienda); b) per un altro verso, la sentenza tiene ad evidenziare che “ad un attento esame” la sede dell'impresa risultava, nel tempo, indicata sempre al medesimo indirizzo.
Vero è che la sentenza evoca, al riguardo, anche “le dichiarazioni testimoniali”; ma il fatto che esse siano richiamate all'insegna del “si aggiungono...” alle deduzioni precedenti, che il loro contenuto non sia enunciato (a differenza della minuziosa analisi appena sopra descritta) e che i due testi “in particolare” indicati come pertinenti referenti sull'argomento, per intuitive ragioni temporali difficilmente avranno potuto riferire, di scienza propria, su fatti verificatisi anche generazioni prima (la sentenza si riferisce ad una “presenza dell'antica famiglia... attestata da molti secoli”), induce a ritenere che il contenuto delle deposizioni testimoniali, anziché far prova diretta, nell'economia della decisione in commento abbia costituito solo un elemento di supporto del complesso di elementi su cui la sentenza ha elaborato la presunzione.
Per quanto riguarda l'accertamento dell'uso del marchio di fatto e delle sue caratteristiche, le prove documentali, per quel che risulta in motivazione, o non c'erano oppure si riducevano a ben poca cosa: le “denunce della produzione vinicola”, le “denunce delle giacenze di vino”. Ben poca cosa, perché documentazione quale quella ora indicata riguarda il prodotto sfuso, e difficilmente riferisce con quale marchio il vino sia destinato a circolare, né dimostra che con tale marchio si effettivamente circolato. Sicché, la sentenza ha dovuto fare riferimento alle risultanze delle disposizioni testimoniali. Ma, neanche qui, ha trovato ricchezza di elementi ai fini della individuazione delle caratteristiche del preuso. Infatti: se le deposizioni testimoniali erano risultate concordi nel confermare l'uso del segno distintivo in etichette apposte su bottiglie e bottiglioni anche in epoca relativamente risalente, tuttavia era mancata una specificazione “quantitativa” di quell'uso, sia perché parte della produzione risultava esser stata venduta in damigiane (quindi, verosimilmente, senza apposizione di etichette recanti il marchio), sia perché era mancata la prova che il marchio “fosse apposto su tutto il prodotto”, nel mentre “il volume della produzione” (probabilmente non ingente) è stato assunto ad indice negativo ai fini della valutazione del carattere non puramente locale della notorietà.
E da notare che la sentenza in commento si muove sul piano della ricerca di dati attinenti alla materiale diffusione del prodotto recante il marchio di fatto, anziché (come sarebbe stato corretto fare) sul piano della individuazione della sfera di sua notorietà; tale approccio, peraltro, sembra essere la conseguenza della assenza di materiale probatorio attinente alla pubblicità e ad altre forme di veicolazione del marchio, diverse da quella consistente nella materiale applicazione al prodotto.
L'esito del procedimento accertativo della sentenza non poteva, dunque, essere più scontato: all'uso di fatto del marchio è stata riconosciuta valenza puramente locale (limitata alle province di Udine e Pordenone); a tale ambito è stato limitato il diritto di continuare a far uso del marchio di fatto ed a tale “cristallizzazione” ha fatto seguito l'inibitoria di utilizzarlo oltre l'ambito del preuso; con dichiarazione di nullità del marchio medio tempore registrato.

Massimo Cartella

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